Colf in nero e foto del luogo di lavoro: no alla condanna

La donna era stata condannata a quattro mesi di reclusioni per aver effettuato riprese fotografiche nella casa dei suoi datori di lavoro.

26 NOV 2019 · Tempo di lettura: min.
Colf in nero e foto del luogo di lavoro: no alla condanna

Sono tanti, sicuramente troppi, i lavoratori domestici che in Italia si trovano in una situazione irregolare. Una situazione che spesso riguarda, ad esempio, le cosiddette colf, i collaboratori/collaboratrici familiari, ossia quelle persone che si dedicano al lavoro domestico. Cosa possono fare questi lavoratori per dimostrare l'esistenza di irregolarità nel rapporto di lavoro? È possibile, ad esempio, fare foto alla casa in cui si lavora per provare che esiste un rapporto lavorativo? Su questo tema si è recentemente espressa la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 46158/2019. Ecco quali sono state le motivazioni degli ermellini.

La vicenda

La Corte d’Appello di Torino, confermando la precedente sentenza del Tribunale di primo grado, aveva condannato una colf alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al rimborso delle spese e al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, secondo quanto sancito dall’articolo 615 bis del codice penale che, nel primo comma, stabilisce che: "Chiunque, mediante l'uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'articolo 614, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni".

La donna, infatti, secondo i giudici, era colpevole di aver effettuato "riprese fotografiche all’interno dell’abitazione di M.C. e M.R., poi prodotte in sede di giudizio relativo al rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti lese e la stessa". Tuttavia, l’imputata aveva deciso di fare ricorso presso la Corte di Cassazione. In particolar modo, i difensori della donna avevano ricordato che "La riservatezza domiciliare, bene giuridico in considerazione del quale è stato introdotto il reato in questione, non è lesa, ove le riproduzioni fotografiche siano limitate ad una mera raffigurazione spaziale, operata, peraltro, dall’esponente, pienamente autorizzata ad accedere ad ogni parte del domicilio protetto".

La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha deciso di annullare senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Secondo i giudici, infatti, è indubbio che la donna avesse l’autorizzazione ad accedere alle abitazioni e che le riprese fotografiche effettuate, che riguardavano gli ambienti interni e il mobilio (e non scene della vita privata dei proprietari), erano state eseguite per avere una prova, usata nel corso del giudizio di lavoro, del rapporto di lavoro subordinato esistente.

In più, riprendendo la sentenza n. 27160 del 02/05/2018 dello stesso tribunale, infatti, la Corte di Cassazione ha ricorda che "va detto che secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, non integra il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615 bis c.p.) la condotta di colui che, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva, in un’abitazione in cui sia lecitamente presente, filma scene di vita privata, in quanto l’interferenza illecita normativamente prevista è quella realizzata dal terzo estraneo al domicilio che ne violi l’intimità, mentre il disvalore penale non è ricollegato alla mera assenza del consenso da parte di chi viene ripreso".

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