La ludopatia e gli effetti sul rapporto di lavoro
La ludopatia comporta implicazioni sulla conservazione del posto di lavoro ma anche sulla tutela della sicurezza e della salute sul luogo di lavoro
Non vanno trascurate le implicazioni della ludopatia sulla conservazione del posto di lavoro, non a caso, Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 2018, n. 31483 respinge il ricorso presentato da un cassiere ludopatico licenziato da un Istituto bancario per varie indebite appropriazioni di somme di danaro. Così come Cass. civ., sez. lav., 21 marzo 2008, n. 7650 conferma il licenziamento di un addetto alle poste ludopatico per appropriazione continuata di somme di danaro.
Sorprende, però, che finora siano sfuggite all'attenzione ulteriori implicazioni dell'accesso al gioco d'azzardo che a ben vedere rivestono invece un particolare rilievo nell'orizzonte di due beni pur correttamente evocati: certo la salute protetta dall'art. 32 Cost. come «fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività», ma congiuntamente il lavoro tutelato dall'art. 4, comma 1, «in tutte le sue forme ed applicazioni».
in questa prospettiva, occorre mettere finalmente in risalto che, tra le esigenze sottostanti alla battaglia contro la ludopatia e alla prevenzione del gioco d'azzardo patologico, deve trovare spazio anche in sede istituzionale quella attinente alla tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro
E non solo perché allarma un datore di lavoro ludopatico che rimane sprovvisto delle risorse necessarie per adottare le misure di prevenzione e protezione tecnologicamente più avanzate.
Purtroppo, il fenomeno può essere ampio e preoccupante nella misura in cui coinvolga gli stessi lavoratori. Non a caso, gli studiosi avvertono che il gioco d'azzardo è divenuto «un comportamento di massa, industrialmente prodotto e incentivato, al punto di assorbire almeno 100 milioni di giornate lavorative degli italiani», tanto da realizzare una sorprendente parità di genere nella dipendenza da gioco d'azzardo patologico, e da incidere sui rapporti del singolo con i colleghi di lavoro.
E allora ricordiamo che «il sistema della normativa antinfortunistica si è evoluto passando da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, quale soggetto garante investito di un obbligo di vigilanza ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, ivi compresi i lavoratori»
Infatti, l'art. 20, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 prevede che «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni».
La Corte Suprema ne desume "un nuovo principio": il c.d. "principio di autoresponsabilità del lavoratore", e, dunque, «la trasformazione del lavoratore da semplice creditore di sicurezza nei confronti del datore di lavoro a suo compartecipe nell'applicazione del dovere di fare sicurezza, nel senso che il lavoratore diventa garante, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri compagni di lavoro o di altre persone presenti, quando si trovi nella condizione di intervenire onde rimuovere le possibili cause di infortuni sul lavoro».
E ancora: «il lavoratore, pur essendo il soggetto primariamente tutelato dalla normativa prevenzionale, è anch'egli titolare di una posizione di garanzia nella materia del lavoro». Il lavoratore, dunque, si è trasformato da mero creditore di sicurezza in debitore di sicurezza, e corre il rischio altrimenti d'incorrere egli stesso in responsabilità per l'infortunio occorso ad altro lavoratore o di escludere per un proprio infortunio la responsabilità del datore di lavoro.
Si tratta di indicazioni normative potenzialmente quanto mai preziose. Ma agevole e realistico è comprendere che i lavoratori sono ancor meno in grado di far valere i propri diritti e di rispettare i propri obblighi a tutela della sicurezza per sé e per gli altri qualora versino in stato di bisogno.
Da questo angolo visuale, non possono non allarmare i lavoratori ludopatici. Proviamo solo ad immaginarli impegnati in quel mondo che si sta rivelando altamente pericoloso degli appalti e dei cantieri edili. Un mondo nel quale rischia la propria e altrui vita chi sia costretto ad accettare di lavorare su un ponteggio privo dei prescritti dispositivi o in uno scavo instabile. Un mondo largamente popolato di lavoratori in nero, quando non sottoposti al caporalato.
Non sfugga all'attenzione un ulteriore profilo.che ha assunto un peso mai prima visto l'idoneità psico-attitudinale dei lavoratori: di tutti i lavoratori, e non soltanto dei piloti di aereo o della Polizia di Stato o dei Vigili del Fuoco.
Stabilisce l'art. 18, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008 che il datore di lavoro e i dirigenti, «nell'affidare i compiti ai lavoratori», devono «tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza». Se ne trae che, nell'affidare e nel mantenere i compiti ai lavoratori, occorre tener conto anche delle loro condizioni psichiche, e dunque anche di un'eventuale ludopatia.
Come insegna Cass. pen., sez. IV, 9 agosto 2022, n. 30814, l'obiettivo è quello di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa. Dove, dunque, emerge una peculiarità da tener ben presente in sede di conferimento e mantenimento dei compiti al lavoratore in conformità anche alla loro idoneità psico-attitudinale. La peculiarità è che la verifica dell'idoneità psico-attitudinale non solo dovrà avvenire in via preventiva e generale, ma dovrà essere replicata quotidianamente.
E si badi che la tutela dell'idoneità psico-attitudinale del lavoratore mira certamente a proteggere la sua sicurezza e la sua salute, ma mira, altresì, a proteggere la sicurezza e la salute degli altri lavoratori, quando non addirittura dei terzi.
Diverse sono «le ipotizzabili modalità di adempimento degli obblighi ma comune l'obiettivo di assicurare che il lavoratore sia in condizioni che permettano lo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa» (come scrisse con mirabile efficacia già Cass. pen., sez. IV, 17 settembre 2013, ( V., da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 5 giugno 2023, n. 23986; Cass. pen., sez. IV, 21 aprile 2023, n. 17006, ).
Tra le modalità, fa spicco la sorveglianza sanitaria. Ed è proprio su questo aspetto nevralgico che pur se per diverse ragioni incorrono nel malinteso vuoi la circolare n. 3/2017, vuoi lo stesso interpello n. 2/2022. La circolare n. 3/2017, perché sulla scorta dell'art. 18, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008 pretenderebbe di rendere obbligatoria la sorveglianza sanitaria da parte del medico competente al di fuori dei casi espressamente e tassativamente previsti nell'art. 41, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008.
Ma a sua volta anche l'interpello n. 2/2022, perché al di fuori dei casi di sorveglianza sanitaria obbligatoria del medico competente trascura il controllo sull'idoneità affidato, non già al medico competente nominato dal datore di lavoro, bensì al medico pubblico in linea con il comma 3 dell'art. 5 Statuto dei Lavoratori.
Un controllo, questo, che nell'ottica dell'art. 18, comma 1, lett. c), D.Lgs. n. 81/2008 risulta una strada non semplicemente percorribile, ma comunque doverosa. Senza che sia aprioristicamente da escludere che lo stesso medico competente - presente in quanto nominato - indichi al datore di lavoro siffatta strada qualora s'imbatta in un'ipotesi in cui occorra verificare l'idoneità di un lavoratore esposto a rischio "non tabellato". Non per nulla, l'art. 20, comma 2, lett. i), D.Lgs. n. 81/2008 obbliga il lavoratore a sottoporsi «ai controlli sanitari previsti dal presente decreto legislativo», e dunque ai controlli sanitari di cui all'art. 41, comma 1, «o» ai controlli sanitari «comunque disposti dal medico competente».