La privacy digitale è sacra: reato l'accesso al whatsapp dell'ex
accedere all'applicazione WhatsApp dell'ex partner costituisce reato, anche quando si è in possesso delle credenziali di accesso al dispositivo:la condanna per i reati di accesso abusivo a sistema informatico e violazione di corrispondenza

La privacy digitale è sacra: questo il principio ribadito dalla Corte di Cassazione con una recente e importante sentenza che mette in guardia contro l'accesso non autorizzato ai dispositivi altrui, anche quando si è in possesso delle credenziali di accesso. Con la sentenza n. 3025 del 27 gennaio 2025, i giudici hanno infatti confermato la condanna di un uomo che aveva utilizzato il codice di sblocco del telefono della sua ex compagna per accedere alle sue conversazioni WhatsApp, nonostante la sua intenzione fosse quella di acquisire prove da utilizzare in un procedimento civile riguardante il figlio della coppia.La decisione si inserisce in un contesto sociale in cui l'uso degli smartphone e delle app di messaggistica è ormai parte integrante della nostra vita quotidiana, rendendo ancora più cruciale la tutela della privacy digitale. La Suprema Corte ha voluto mandare un messaggio chiaro: violare la riservatezza delle comunicazioni altrui costituisce reato, anche quando si conoscono le password o i codici di accesso al dispositivo. Non importa se questi codici sono stati condivisi volontariamente in passato, magari durante una relazione sentimentale: nel momento in cui il rapporto di fiducia viene meno, utilizzare quelle credenziali diventa un'intrusione illegittima nella sfera privata dell'altra persona.Il caso esaminato dalla Cassazione è particolarmente significativo perché affronta una situazione comune: quella di un genitore che, preoccupato per il benessere del figlio, cerca di acquisire informazioni attraverso mezzi non consentiti. La Corte ha però chiarito che nemmeno la nobile finalità di tutelare un minore può giustificare la violazione della privacy altrui. Come sottolineato nella sentenza, esistono strumenti legali per ottenere le informazioni necessarie: è possibile rivolgersi al giudice, anche con procedura d'urgenza, per acquisire legittimamente la documentazione rilevante.La decisione si basa su due articoli fondamentali del codice penale: l'art. 615-ter, che punisce l'accesso abusivo a sistema informatico, e l'art. 616, che sanziona la violazione di corrispondenza. Questi reati si configurano anche quando l'accesso avviene utilizzando credenziali legittime, se l'utilizzo va oltre i limiti dell'autorizzazione ricevuta o contrasta con la volontà attuale del proprietario del dispositivo.La sentenza assume particolare rilevanza nell'era digitale, dove la tentazione di "sbirciare" nei dispositivi altrui può essere forte, specialmente in situazioni di conflitto personale o familiare. Il messaggio della Cassazione è però inequivocabile: la privacy digitale è un diritto fondamentale che va rispettato, e la sua violazione comporta conseguenze penali, indipendentemente dalle motivazioni sottostanti. Questo principio si applica non solo alle app di messaggistica come WhatsApp, ma a qualsiasi forma di comunicazione digitale, dalla posta elettronica ai social network.La Corte ha inoltre sottolineato come l'evoluzione tecnologica non possa comportare un arretramento delle garanzie costituzionali in materia di segretezza delle comunicazioni, tutelate dall'art. 15 della Costituzione. La protezione della privacy digitale viene così elevata al rango di diritto fondamentale, meritevole della massima tutela da parte dell'ordinamento. Questo orientamento risulta particolarmente significativo in un'epoca in cui i confini tra sfera pubblica e privata diventano sempre più sfumati a causa della pervasività delle tecnologie digitali.La decisione rappresenta quindi un importante monito per tutti: nell'era digitale, il rispetto della privacy altrui deve essere assoluto, e qualsiasi esigenza di acquisire informazioni deve essere soddisfatta attraverso i canali legali previsti dall'ordinamento. Un principio che vale non solo nei rapporti personali, ma anche in ambito professionale e sociale, dove la tentazione di accedere a informazioni riservate può essere ancora più forte. La sentenza della Cassazione contribuisce così a delineare i confini sempre più netti tra comportamenti leciti e illeciti nel mondo digitale, fornendo una guida chiara per la tutela della privacy nelle comunicazioni elettroniche.