Il reato di diffamazione su Facebook

Il tribunale ha deciso di condannare non solo l'imputato autore del post ma anche altre persone che hanno risposto con altre frasi altrettanto diffamatorie nei confronti del magistrato.

4 GIU 2018 · Tempo di lettura: min.
Il reato di diffamazione su Facebook

Può essere condannato chi risponde in maniera diffamatoria a un post altrettanto diffamatorio su Facebook?

Il primo comma dell'articolo 595 del codice penale disciplina il cosiddetto "reato di diffamazione":

"chiunque […] comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro".

Questo reato è diffuso non solo nella vita di tutti i giorni ma anche sulle reti sociali. Un post offensivo su Facebook, infatti, può essere considerato un reato in quanto viene diffuso fra un alto numero di persone.

Secondo il Tribunale di Campobasso, con la sentenza n. 396/2017, possono incorrere nel reato di diffamazione non solo quelle persone che pubblicano sulle reti sociali un post offensivo ma anche chi diffama attraverso un commento al di sotto del post originale.

Il caso

L'imputato ha pubblicato sul social network Facebook un post offensivo nei confronti di un magistrato, inserendo nome e cognome, che si era assentato durante un processo e che aveva deciso di multare l'uomo con 250 euro. Il post conteneva insulti pesanti che sono stati subito letti da diversi utenti che hanno risposto al messaggio e aggiunto diversi "mi piace".

Molti di questi commenti, però, proprio come il messaggio iniziale, contenevano altri insulti sia nei confronti del giudice che della sua categoria, con le aggravanti di aver commesso il fatto mediante attribuzione di un fatto specifico, a mezzo della rete internet, e recando offesa ad un Corpo giudiziario o ad una sua rappresentanza.

La decisione del Tribunale

Il tribunale ha deciso di condannare non solo l'imputato autore del post iniziale ma anche altre due persone che avevano risposto al messaggio con altre frasi altrettanto diffamatorie nei confronti del magistrato. I giudici, infatti, hanno richiamato alcune decisioni precedenti della corte di Cassazione, secondo cui

"la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo è tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall'art. 595 c.p.p., comma 5".

Secondo la Corte, inoltre, anche se l'articolo 21 della Costituzione tutela la libertà di pensiero, tuttavia ci sono dei limiti che riguardano il rispetto altrui e la tutela dell'ordine pubblico e del buon costume. La diffamazione, dunque, è un reato e non una manifestazione della libertà di pensiero. Gli imputati, infatti, sarebbero incorsi nel delitto di diffamazione con l'aggravante prevista non solo dal quarto ma anche dal terzo comma dell'articolo 595 del codice penale:

"se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro".

Nel caso specifico, inoltre, non è stato sufficiente che il post in questione sia stato poi rimosso e quindi non sia più visibile sul profilo Facebook, in quanto il reato è stato già consumato all'atto della percezione delle frasi denigratorie da parte di più di una persona. Tuttavia, i giudici hanno chiarito che: "nella fattispecie in esame le frasi "postate" dal (...) sulla propria bacheca Facebook, sono nitidamente riferite alla vicenda occorsa quel giorno stesso in udienza (16.11.2014) e, pertanto, sicuramente riferite ad un fatto specifico e determinato, idonee ad integrare l'aggravante in questione. Al contrario, per gli altri due imputati va esclusa l'aggravante dell'attribuzione di un fatto determinato in quanto gli stessi hanno espresso un commento generico sul fatto determinato esplicitato dal (...). Il che rende sicuramente più grave la condotta di quest'ultimo".

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