Non è reato di maltrattamenti in famiglia se non è reiterato
Secondo la Corte di Cassazione, il ricorso è fondato.
I giudici della Corte di Cassazione hanno affermato, in una recente sentenza, che l’abitualità dei comportamenti sono uno degli elementi fondamentali del reato di Maltrattamenti contro familiari o conviventi.
Il primo comma dell’articolo 572 del codice penale, intitolato “Maltrattamenti contro familiari o conviventi” sancisce che:
“Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente [Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina], maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
Si tratta di un reato, però, che dev’essere reiterato e non caratterizzato da maltrattamenti sporadici. Questa è la conclusione a cui è arrivata la Corte di Cassazione, VI sezione penale, con la sentenza n. 6129/2019.
La vicenda
La Corte di Appello di Palermo aveva confermato, con la sentenza n.1539/2018, la condanna sancita dal Tribunale di Palermo nei confronti di un uomo, secondo l’articolo 572 del codice penale, per aver maltrattato la moglie ingiuriandola, minacciandola e percuotendola, condannandolo inoltre ex articolo 582 e 585 del codice penale per averle procurato delle lesioni.
L’uomo ha deciso di proporre ricorso presso la Corte di Cassazione. Secondo la difesa, infatti, non sarebbe presente l’elemento oggettivo del reato “Maltrattamenti contro familiari o conviventi” previsto dall’articolo 572 del codice penale in quanto non era presenta “l’abitualità dei comportamenti”.
Secondo l’uomo, infatti, non era stata presa in considerazione la brevità della durata della condotta in proporzione a un matrimonio durato quattordici anni.
La decisione della Corte di Cassazione
Secondo la Corte di Cassazione, il ricorso è fondato. I giudici, infatti, hanno sottolineato nella sentenza che:
“l’elemento oggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia è integrato dal compimento di più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi, senza che sia necessario che essi vengano attuati per un tempo prolungato, bastando, invece, la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale”.
Secondo gli ermellini, inoltre, “la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia non implica l’intenzione di sottoporre la persona offesa, in modo continuo e abituale, a una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell’agente di persistere in un’attività vessatoria”.
Per questi motivi, i giudici della Corte di Cassazione hanno ritenuto carente la sentenza della Corte di Appello di Palermo proprio nella parte riguardante l’abitualità delle condotte dell’imputato. Senza questo elemento, infatti, il reato di maltrattamenti in famiglia non sussiste. Nel caso in concreto, infatti, fra dicembre 2013 e ottobre 2014 sono stati tre gli episodi di maltrattamenti contro la moglie (minacce, percosse e ingiurie):
“Manca, pertanto, nella motivazione della sentenza impugnata una argomentazione che raccordi puntualmente […] le singole condotte, individuando esplicitamente un atteggiamento volitivo che non si risolva in manifestazioni, seppur ripetute, di contingente aggressività, ma comprovi il consapevole perseverare in condotte lesive della dignità della persona offesa”.
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